In pochi mesi il coronavirus ha contagiato più di cinque milioni di persone, provocando oltre trecentomila morti in 196 Paesi e territori. Questa pandemia inaspettata e incontrollabile, non ha provocato solo morti, ma sconvolgimenti sociali e forme di panico sociale. Più ancora della paura della malattia è dilagata la paura del futuro, con sentimenti di frustrazione e di rabbia verso eventi che hanno sconvolto tutte le abitudini. Così, se per alcuni il tempo del coronavirus è stato un’epoca di preghiera e di raccoglimento, per molti altri è stato un periodo di amarezza e di inquietudine. Ma quella che potremmo definire l’“era del coronavirus” non è terminata e bisogna cercare di viverla con una profonda pace nel cuore.
Il principio da cui partire è che Dio è l’autore di ogni cosa, al di fuori del peccato, e fa tutto con perfetta saggezza. La saggezza dell’uomo consiste a sua volta nel conformarsi alla volontà di Dio, che si manifesta in ogni luogo dello spazio e in ogni momento del tempo. «Dobbiamo conformarci alla volontà di Dio – dice un grande autore spirituale, il padre Jean-Baptiste Saint-Jure – in tutte le calamità pubbliche, quali la guerra, la carestia, la peste, riverire e adorare i suoi giudizi con profonda umiltà e per quanto ci possano sembrare rigorosi, credere con assoluta sicurezza che questo Dio di assoluta bontà non ci invierebbe simili flagelli se da essi non risultassero dei grandi beni» (La Divine Providence, Editions Saint-Paul, Versailles 1998, p. 64).
Tutti i capelli del nostro capo sono contati (Mt 10,30) e non ne cadrà uno solo se non per volontà di Dio (Lc 21,18). Nulla di male potrà dunque accaderci che non sia voluto o permesso da Dio. Anche nelle epoche di calamità pubbliche e sconvolgimenti sociali Dio ci protegge e ci assiste e noi dobbiamo propiziarci la sua protezione con una imperturbabile tranquillità dell’anima.
«Una assoluta imperturbabilità! Ecco il vero stato del vero cristiano» dice dom Francesco Pollien (Cristianesimo vissuto, Edizioni Fiducia, Roma 2017, p. 121). La pace cristiana è una pace che nulla turba, nulla altera, nulla interrompe, nella gioia e nel dolore, nei successi e nelle avversità. Per il cristiano solo una cosa ha valore: la volontà di Dio. L’uomo inquieto è quello che ha perduto il riposo dell’anima ed è perciò senza quiete.
L’uomo inquieto si preoccupa ad esempio del proprio corpo e del proprio futuro, dimenticando la risposta del Signore a questo tormento dello spirito: «Non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena» (Mt 6,25-34).
Così, nel Dialogo della Divina Provvidenza, il Signore dice a santa Caterina da Siena: «Pare che gli uomini non credano che io sia tanto potente da soccorrerli, forte da poterli aiutare e difendere dai loro nemici, sapiente da illuminare loro l’occhio dell’intelletto; né che io abbia clemenza per dar loro quello che è di necessità alla salvezza, né sia ricco per arricchirli, né sia bello per dar loro bellezza, né abbia cibo per dar loro da mangiare, e vestito per ricoprirsi» (Cantagalli, Siena 1988, p. 306).
L’abbiamo visto nei giorni del coronavirus. L’uomo inquieto è quello che vede nell’epidemia un nemico invisibile e oscuro che minaccia il suo futuro. L’uomo inquieto sente un pericolo che lo minaccia, un pericolo imprevisto di fronte a cui non si sa come difendersi e da cui nasceranno nuove sciagure, come se Dio non fosse capace di ordinare ogni male al bene. L’uomo inquieto vede nelle calamità pubbliche la cospirazione degli uomini, ma non la mano di Dio e il demonio spinge l’uomo all’agitazione per sottrarlo all’azione divina e gettarlo in preda alle iniziative umane.
Oggi tutti dibattono su quale sia la migliore scelta, se «morire di coronavirus o di fame». Chi vuole evitare la morte per coronavirus difende le drastiche misure del governo per tutelare la salute dei cittadini; chi teme la morte per fame, come conseguenza del crollo economico della società, vorrebbe abolire queste misure restrittive per rilanciare l’economia. Il dilemma è tra una quarantena che tutela la salute ma danneggia l’economia ed una liberalizzazione dei movimenti, che avvantaggia l’economia ma rischia di danneggiare la salute. La soluzione però non sta tanto nel cercare una soluzione intermedia tra le due posizioni, quanto nel cambiare completamente l’alternativa. Dovremmo chiederci infatti se vogliamo morire, mettendo Dio in quarantena o se vogliamo vivere, restituendo a Dio il suo posto nella società.
Mettere Dio in quarantena significa chiudere le chiese, sopprimere le messe, eliminare ogni forma di rispetto e di riverenza al Santissimo Sacramento, maneggiando l’Eucarestia con i guanti e imponendo ai fedeli di riceverla nelle mani. Restituire a Dio il suo posto nella società significa tributargli il culto che gli è dovuto, ristabilendo la Comunione in bocca e in ginocchio e lasciando piena libertà di celebrazione delle cerimonie religiose. Ma significa, soprattutto, ricordare che Dio ha un’assoluta priorità. Egli deve passare prima della nostra vita fisica e deve essere al primo posto nelle idee, nelle leggi, nei costumi. Se ciò non accade il mondo piomba nel disordine. Dilemmi tragici, come la scelta se morire di peste o di fame, sono la conseguenza di chi rifiuta di dare a Dio il posto che gli conviene nella vita degli individui e della società.