L’autore di Trilogia romana, il Prof. Roberto de Mattei, affronta lo scontro tra Chiesa e Rivoluzione, “sceneggiando” alcuni incontri tra personaggi realmente esistiti, immaginando dialoghi i cui contenuti sono però stati ricavati da un’attenta ricerca storica. Del resto, come afferma uno dei protagonisti, «talvolta la conversazione aiuta a comprendere la realtà meglio dei libri».

«Il Papa però non riuscirà a stroncarlo, perché il modernismo pervade il Vaticano e in Italia aderisce segretamente ad esso una gran parte del giovane clero. I giovani preti discutono dell’abolizione del celibato sacerdotale, dello sviluppo dei dogmi, della libertà di coscienza, simpatizzano per le idee democratiche e socialiste. Ma Pio X si rifiuta di democratizzare la Chiesa. Al Vaticano è il caso di rivolgere l’antico aforisma pagano: quos vult perdere, Iupiter dementat». A parlare è il principe Leone Caetani, orientalista di fama internazionale, in odore di massoneria e convinto occultista.

Il suo interlocutore è John Pierpont Morgan, una potenza politica ed economica: «Era in America ciò che i Rothschild erano in Europa». Ciò che accomuna i due uomini è «uno smisurato orgoglio e una avversione radicale alla Chiesa cattolica». Dal loro colloquio – avvenuto nel 1908 – si comprende perfettamente quale sia il fine del modernismo, quali le sue origini e quali gli occulti sostenitori e gli interessati alleati.

 

Lo scontro tra Chiesa e Rivoluzione

Esiste il saggio storico, esiste il romanzo storico ed esiste anche la ricostruzione storica romanzata: quest’ultima è una particolare ricostruzione storica – aderente alla verità, ma priva delle tipiche note bibliografiche che appesantiscono necessariamente le lettura –, in cui l’autore si permette di “drammatizzare” i dati forniti, magari mettendoli in bocca ai protagonisti di quel periodo.

Roberto de Mattei, con Trilogia romana (Solfanelli, Chieti 2018, p. 160, € 12) affronta lo scontro tra Chiesa e Rivoluzione “sceneggiando” alcuni incontri tra personaggi realmente esistiti, immaginando dialoghi i cui contenuti sono però stati ricavati da un’attenta ricerca storica. Del resto, come afferma uno dei protagonisti, «talvolta la conversazione aiuta a comprendere la realtà meglio dei libri» (p. 139).

 

Lo storico e il Cardinale

Il primo incontro (Lo storico e il cardinale) si svolge nel 1847 tra il giornalista e storico Jacques Crétineau-Joly (1803-1875), «vandeano di nascita e di temperamento», e il cardinale Giuseppe Mezzofanti (1774-1849), un vero e proprio “mostro” nell’apprendimento delle lingue (ne conosceva 80 e ne parlava correntemente 40, molte delle quali con i rispettivi dialetti), ma anche uomo di grandissima cultura e spiritualità. Il loro colloquio verte sulle radici ideologiche e religiose della rivoluzione e si conclude con l’invito del porporato a continuare a scrivere l’opera L’Église romaine en face de la Révolution (che sarà pubblicato nel 1859), nonostante i dubbi provenienti anche dall’interno della stessa Chiesa.

 

Una giornata di luglio a Roma

La seconda sezione del libro (Una giornata di luglio a Roma) riporta un duplice incontro: innanzitutto quello tra il sacerdote modernista Ernesto Buonaiuti (1881-1946) e il suo antico maestro, monsignor Umberto Benigni (1862-1934), fondatore del Sodalitium pianum e direttore dell’agenzia quotidiana Corrispondenza romana, che ha appena ricevuto la principessa Giustiniani Bandini. Benigni e Bonaiuti esprimono due posizioni assolutamente inconciliabili; invece, a pochi passi, in un salotto del Grande Albergo di Roma, s’incontrano in perfetta sintonia, come detto in apertura, Caetani e Morgan, uniti, nella loro diversità, da un feroce anticlericalismo.

 

Una Principessa racconta

Infine l’ultima parte (Una Principessa racconta) immagina una visita alla citata principessa Maria Cristina Giustiniani Bandini (1866-1959), due anni prima della sua morte, da parte del giornalista svizzero Pierre Engel; di fronte a una fumigante tazza di tè la nobildonna romana ripercorre i propri quasi cento anni di vita e di militanza cattolica, ricostruendo il ruolo – non sempre positivo – dell’aristocrazia romana di fronte alle trasformazioni della società, soprattutto romana, dal Risorgimento alla Repubblica: si parla del giudizio da dare sui nazionalismi del Novecento, ma anche del femminismo (la principessa promosse e diresse l’Unione Donne Cattoliche italiane, sorta nel 1909 in contrapposizione ai movimenti femministi), del ruolo nefasto della Democrazia Cristiana, della trasformazione urbanistica di Roma, dei palazzinari e della nascente egemonia liberal-marxista nel mondo culturale, dell’uso segreto del potere finanziario per influenzare la vita politica ed indebitare i governi, delle radici massoniche e talmudiche del comunismo…

«La Rivoluzione – conclude la principessa – è una piovra inafferrabile di cui noi recidiamo i tentacoli ma non riusciamo a colpire la testa. Le forze rivoluzionarie vogliono la conquista del mondo attraverso una Repubblica universale sotto il loro dominio. Ma a differenza della Chiesa le società segrete operano nell’ombra, utilizzando i mezzi più sleali e immorali. Cerco sempre di chiedermi che cosa farei se fossi al posto dei miei avversari. E immagino le cose peggiori. Per esempio una loro sistematica infiltrazione all’interno della Chiesa cattolica, per raggiungerne i vertici. Quello che mi sorprende però non è l’audacia dei malvagi, ma l’ingenuità e spesso la complicità dei buoni» (p. 149).

 

Il ruolo dell’Aristocrazia romana

Tutta l’opera – il cui titolo è ispirato ai tre nostalgici poemi sinfonici di Ottorino Respighi dedicati alla Città Eterna (Fontane, Pini e Feste) – fa inoltre trasparire un senso di rispettosa ammirazione nei confronti del ruolo svolto, nel corso dei secoli, dall’aristocrazia romana: che essa abbia detenuto concretamente il potere, che si sia distinta in difesa della Fede sulle galere dell’Ordine di Malta oppure a Lepanto o che sia servita di esempio – con le pur sottolineate eccezioni – e di stimolo alla nobiltà europea («i principi romani ovunque avevano la precedenza sui principi del Sacro Romano Impero e le loro dimore erano considerate le più belle d’Europa», p. 114), risulta ben chiaro come il livellamento democratico abbia irrimediabilmente nuociuto alla società. E non solo a quella romana.