«Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali», recita il sottotitolo di un libro che parte da un titolo non elegante per descrivere una storia, quella dell’Unità imposta, che comunque bella non è. Quello di Pino Aprile non è il primo volume dedicato al Risorgimento “visto dall’altra parte”, che narra una storia non di liberazione, bensì di conquista e che descrive il successivo spoglio effettuato ai danni di un’economia, quella del Regno delle Due Sicilie, la più florida degli Stati italiani preunitari.

Che dietro al desiderio di rispondere al “grido di dolore” raccolto da Vittorio Emanuele ci fosse la necessità di risanare le disastrate finanze piemontesi, depredando le casse meridionali, era un dato già noto. Che all’aggressione militare del 1860-61 fosse seguito lo spoglio sistematico e lo smantellamento dell’industria meridionale è invece un fatto assai meno conosciuto.

Il pugliese Pino Aprile, già vicedirettore di Oggi e direttore di Gente, interviene con grande verve polemica con un saggio destinato a far scalpore, che talvolta ha l’effetto di un pugno nello stomaco e risulta una frustata all’orgoglio di chi ha vissuto nella retorica patriottarda di “San Garibaldi liberatore”, rinfocolata in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia.

Purtroppo, va aggiunto, il testo è carente dal punto di vista bibliografico: manca una corretta indicazione delle fonti per poter proseguire lo studio dei vari casi riportati (le acciaierie calabresi a cui furono tolte le commesse per importare – peraltro a prezzi meno vantaggiosi – i manufatti dalla Francia; l’emigrazione di massa da regioni che non avevano mai conosciuto tale fenomeno; le industrie di Castellammare e Pietrarsa, affidate – con mentalità coloniale – a quel Giovanni Ansaldo che costruì le proprie fortune a Genova distruggendo la concorrenza napoletana…).

Ma alla mancanza di note, Pino Aprile rimedia con una invidiabile capacità di scrittura, con un taglio giornalistico che trasforma in un resoconto drammatico ed avvincente la descrizione degli anni successivi al 1861: insomma, il suo testo è una sorta di Gomorra ottocentesca, dove il cancro non è costituito dalla camorra, bensì dalla politica unitaria piemontese.